giovedì 1 dicembre 2011

Vi segnalo un video, montato da me, sul rapporto tra cinema e psicoanalisi, è ovviamente un montaggio ironico, ma ci aiuta a comprendere come spesso viene visto lo psicoanalista al cinema.  Il video lo trovate all'indirizzo: http://vimeo.com/31777632

martedì 11 ottobre 2011

Cinema stereoscopico (3D), una riflessione di Cesare Musatti

Da qualche anno si è sviluppata una riflessione generale (non molto moderna, per la verità) sul cinema 3D. Alcuni sostengono che sostituirà completamente il cinema attuale così com’è successo per il sonoro e per il colore, altri invece sostengono che non ha la forza di attuare questa trasformazione perché principalmente inutile (non aggiunge valore al film, anzi per molti lo declassa).

Riporto di seguito una riflessione, sull’argomento, di Cesare Musatti, fondatore della Psicoanalisi Italiana, che ha scritto sul tema già dal 1960 (ecco perché il dibattito non è attuale).

Il testo è tratto da un suo scritto intitolato:

Cesare Musatti (1961), “Psicologia degli spettatori”. In Dario F. Romano (a cura di), Scritti sul cinema, Testo & Immagine, Torino, 2000.

Il cinematografo si differenzia dalla lanterna magica non soltanto perché ciò che in esso è veduto si muove, mentre le immagini della lanterna magica stanno ferme, ma perché ciò che è veduto ha un carattere di realtà, mentre nella proiezione fissa ha un semplice carattere di immagine. In altri termini, il movimento, al cinematografo, conferisce a quanto è veduto un aspetto di cosa reale, che senza il movimento, come appunto avviene nelle proiezioni fisse, non è ottenibile.

La cosa si può presto constatare. Nella stessa cinematografia un paesaggio, per esempio montano, oppure la veduta di una città, dove nulla si muova – specialmente se la macchina da presa è rimasta anch’essa ferma e non si è fatto uso di panoramiche o di carrellate – dà l’impressione di una cosa piatta, cioè appunto di una immagine, come un disegno o un quadro. Basta che in quel paesaggio vengano inseriti improvvisamente oggetti, persone o animali in movimento perché la situazione percettiva si modifichi e si abbia l’impressione di realtà.

[Ne consegue che] il cinema stereoscopico che si voleva inventare non aveva alcun bisogno di essere inventato, per il semplice motivo che esisteva già: il cinema normale, il cinema comune, quello che viene detto a due dimensioni, è già di per sé un cinema stereoscopico. E gli artifici mediante i quali si è voluto realizzare un cinema specificamente stereoscopico sono incomodi, fastidiosi, e non aggiungono nulla agli effetti del cinema comune.

Al cinematografo, al cinematografo comune, noi non vediamo figure piane che si muovono in un piano, ma corpi che si spostano in un ambiente tridimensionale: una stanza, una via, una piazza, un paesaggio. Vi sono sì condizioni eccezionali nelle quali si ha soltanto movimento di figure piane (macchie e ombre) su un piano: ciò accade quando, come spettatori, siamo in una posizione eccessivamente laterale rispetto allo schermo. Ma se la direzione del nostro sguardo verso lo schermo non si discosta troppo dalla normale, e se siamo sufficientemente lontani dallo schermo, non ci sono più macchie e ombre piane sopra un piano, ma oggetti corporei (cose e individui) che si muovono nello spazio.

L’idea che si dovesse inventare un cinema stereoscopico è, dunque, un’idea sorta non sulla base di una difettosità delle impressioni date dal cinema comune, ma sulla base di un ragionamento astratto (fondato su quello che gli psicologi chiamano stimulus error, l’errore dello stimolo) consistente nel dire: «poiché lo schermo è piano, le immagini là proiettate devono essere anch’esse piane; ma se le immagini cinematografiche sono piane bisogna trovare la maniera per farle diventare corporee, così come è corporea la realtà effettiva».

La ricerca sul cinema stereoscopico è, dunque, uno dei più tipici esempi di un problema tecnico-scientifico nato dal nulla.

Ma perché il cinema comune, quello che si dice a due dimensioni, riesce a darci impressioni del tutto corrispondenti a quelle di una realtà corporea tridimensionale? Obbiettivamente sullo schermo le immagini proiettate sono in continua deformazione: il treno che arriva in stazione, di uno del filmetti presentati dai fratelli Lumièr (per riferirci a quella che può essere considerata storicamente come una delle prime esperienze cinematografiche), ci dava sullo schermo un’immagine del treno o della locomotiva che progressivamente si ingrandiva. Vista di fianco, quell’immagine appariva veramente qualche cosa di scuro che si fa via via più grande. Ma vista da una buona posizione in sala, la locomotiva non ingrandisce affatto ma si avvicina.

Vi è una legge generale della percezione visiva, la quale dice: quando sulla retina dei nostri occhi un’immagine subisce un progressivo ingrandimento o un progressivo impicciolimento di proporzioni, agisce una tendenza a vedere le dimensioni dell’oggetto corrispondente costanti (e quindi l’oggetto rigido), e a trasformare quello che dovrebbe essere un ingrandimento o impicciolimento in un avvicinamento o allontanamento. Questa tendenza a mantenere costanti – sempre che sia possibile – le dimensioni dell’oggetto veduto, convertendo possibilmente le variazioni di dimensione dell’immagine in variazioni di posizione in profondità sta alla base dell’effetto stereoscopico del cinema normale.

Se sullo schermo non si hanno variazioni di dimensioni nelle immagini, neppure si produce impressione stereoscopica. Ecco perché i semplici paesaggi dove nulla si muova divengono al cinema qualche cosa di piatto. Per ovviare a ciò i tecnici usano introdurre – quando «la scena è vuota» - movimenti della stessa macchina da presa. Le variazioni che allora si ottengono nelle immagini possono ristabilire (parzialmente) un’impressione di corporeità.